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Patricija

Gatta ci cova

Tutta la vita - Alberto Savinio, Paola Italia

“Perché gli uomini cedono alle più grosse impressioni fisiche, ma sono troppo rozzi ancora per fare attenzione a quel che di più sottile e ineffabile circonda la nostra vita; non sanno ascoltare le voci delle cose che nella loro ignoranza essi credono mute”.



Fra il 1942 e il 1945 Alberto Savinio scrive freneticamente. 
I motivi che accendono la creatività sono certamente l’entrata nella scuderia Bompiani, la diminuzione delle collaborazioni giornalistiche e la miseria nera causata dalla guerra. A tal proposito, Savinio scrive a Bompiani (al quale è legato da profonda amicizia) il 3 febbraio 1944: “Qui, vita tristissima, tragica, soprattutto umiliante”. Tre settimane più tardi riceve dall’editore un pacco di alimenti. Le sue parole di ringraziamento giungono con una nuova epistola: “Ti ringrazio, anzi ti ringraziamo tutti di cuore. Questo si chiama davvero nutrire i propri autori. Utilissima la crema di riso e il resto e simile alla biblica manna, ma quanto nutriente pure, quanto riconfortante, e non so se non di più, il pensiero di sostentare noi poveri assediati”, e dichiara d’esser pronto a consegnare un volume di racconti.

Tutta la vita esce nel 1946, anche se il colophon porta la data 1945.
Nei racconti di Savinio l’inanimato si anima, vive. Svela l’esistenza e i sentimenti umani. Quelli che non riconosciamo e che, qualora accadesse, non avremmo il coraggio di ammettere. 
Gli oggetti accolgono e raccolgono. Tutto: faccende contorte, questioni irrisolte. Fatti inconfessabili e inconfessati.
Sollevano il velo dell’inconscio, aprono un varco sulle sue tortuosità. Con ironia. Per non turbare. Forse.
Scrittura ricca, musicale, raffinata. Alta. Surreale? Anche. Ma nel senso che intende Savinio: 

 


“Per conto mio accetto l'affermazione ma sento il bisogno di commentarla. Il surrealismo per quanto io vedo e per quanto so, è la rappresentazione dell'informe ossia di quello che ancora non ha preso forma, è l'espressione dell'incosciente ossia di quello che la coscienza ancora non ha organizzato. Quanto a un surrealismo mio, se di surrealismo è il caso di parlare, esso è esattamente il contrario di quello che abbiamo detto, perché il surrealismo, come molti miei scritti e molte mie pitture stanno a testimoniare, non si contenta di rappresentare l'informe e di esprimere l'incosciente, ma vuole dare forma all'informe e coscienza all'incosciente. Mi sono spiegato? Nel surrealismo mio si cela una volontà formativa e, perché non dirlo ? una specie di apostolico fine. Quanto alla «poesia» del mio surrealismo, essa non è gratuita né fine a se stessa, ma a suo modo è una poesia « civica », per quanto operante in un civismo più alto e più vasto, ossia in un supercivismo. Queste indicazioni per capire meglio i racconti contenuti in questo libro.

Il più grande uomo scimmia del Pleistocene - Terry Pratchett, Roy  Lewis, Carlo Brera

Cambiano le ere geologiche. Ma noi no.



“Io sto costruendo il futuro, e voi brontolate perché bisogna lasciare la caverna per un annetto o due […]. Io già prevedo il giorno in cui tutte le orde avranno la loro caverna, ogni caverna il suo fuoco, ogni fuoco lo spiedo con un bel quarto di cavallo ad arrostire... il giorno in cui un viaggio non sarà altro che una bella passeggiata da un focolare accogliente a un altro…”



Ma non tutti son d’accordo.
Quindi, visionari e pensatori che offrite a piene mani scoperte e sapere per migliorare la subumanità senza pensare a lilleri, business o marché, in guardia! O l’orda vi mangerà.

È in casa il signor Brambilla? - Carlo Manzoni

"Nella strada centinaia di signori Brambilla, camminano in fretta. In casa li aspettano le solite avventure di tutti i giorni: niente di straordinario, le solite piccole avventure..."



Avventure quotidiane, minime e tragicomiche. Incontrai il signor Brambilla da bambina. Il libro era un altro, lo spirito lo stesso.

Luciano Bianciardi, la protesta dello stile - Carlo Varotti

Difficile collocare Luciano Bianciardi, scrittore “contro”, nel multiforme panorama letterario e culturale di quegli anni; forse questa è una delle ragioni che l’hanno tenuto sempre ai margini. Ieri come oggi. Carlo Varotti fa notare che sebbene si possa parlare di una “riscoperta” dello scrittore, negli ultimi vent’anni, “la sua opera resta sostanzialmente sottostimata, o celebrata (il che è anche peggio) per fattori che nulla hanno a che fare con la qualità della sua scrittura.” E ha pienamente ragione.
Raramente il nome di Bianciardi compare nei saggi che argomentano le forme della postmodernità letteraria in Italia. Eppure, Angelo Guglielmi, che poneva come capostipite della “recente” narrativa sperimentale italiana C.E. Gadda, ascrive Bianciardi (con Mastronardi e Bruno) fra gli autori che “tengono conto dei problemi linguistici”, (Arbasino e Leonetti “operano sugli aspetti contenutistici”, La Capria e Del Buono curano “la struttura narrativa”, Volponi e Sanguineti si affidano a diretti “esperimenti verbali”). Si tratta di scrittori che ricercano e sperimentano nuove vie linguistiche verso “soluzioni spregiudicate e antitradizionali”. Sperimentazione che secondo Guglielmi assume “quella forza demistificatoria nei confronti delle cose che è la grande qualità della scrittura gaddiana”. E Bianciardi rientra a pieno titolo in questo panorama narrativo dei primi anni Sessanta.
La ricerca dello stile fu un impegno costante per Bianciardi scrittore e traduttore, autore di migliaia di pagine di narrativa, inchiesta sociale, divulgazione storica, articoli di costume.
Con questo saggio, Varotti, ci accompagna in un viaggio, attraverso le sue opere, nella parola bianciardiana, sensibilissima, acuta, che non risparmia e non si risparmia.
Un altro libro da amare.



“Il lettore che entri nel vasto universo di Bianciardi scopre presto che la sua scrittura è attraversata da persorsi coerenti; da ritorni di temi, elementi stilistici e strutturali che, da un’opera all’altra, vengono continuamente rimodulati e ripensati, in un processo di scrittura che fu tutt’altro che inconsapevole e ingenuo.”

Lezioni di ballo per anziani e progrediti  - Bohumil Hrabal
Lezioni di ballo per anziani e progrediti uscì, dopo le sforbiciate da parte della redazione, tagliato di oltre la metà. Il dattiloscritto originale non sopravvisse, ma il redattore affermò che Hrabal aveva utilizzato i passaggi falciati come base di un’altra opera, e che nella versione definitiva non c’era più nulla «delle lezioni di ballo che erano state per parecchie pagine la cornice tematica». Tra i dettagli perduti ricordava il più affascinante: «come, dopo la fine della lezione di ballo, il narratore accompagna il proprio partner al manicomio e lì, alla luce della luna, in un’altana e sui vialetti bianchi dell’istituto ripetono le figure che avevano imparato quella sera».

Il vecchio calzolaio che ama le “sventolone” e la vita si racconta. 
Ed è novella dell’inverosimile, resa credibile dall’assenza di punti fermi. Impossibile interrompere o modificare il ritmo. È un flusso inarrestabile, senza meta, con uditorio singolare: un’impalpabile signorina che ascolta senza mai replicare; è sovversione, scompiglio, è esplosione di frammenti narrativi. È folgorante e mutevole follia. E ancora è caleidoscopico turbinio di figure scentrate, di sentimenti amplificati. È colata di passioni incontenibili, poetiche o prepotenti.
Sedetevi comodamente, aprite il libro, e lasciate parlare Hrabal. 


“i liberi pensatori rinfacciavano alla chiesa che Cristo, se era Dio, perché allora poi teneva commercio con una donna caduta? e io gli dico, c’è poco da fare, davanti a una bella sventolona non riesco a resistere nemmeno io, immaginatevi quindi Gesú Cristo che all’epoca era anche un gran bel pezzo d’uomo, tipo Conar Tolnes, in fondo aveva trent’anni e, insomma, quella Maria Maddalena, anche se di professione faceva la sgualdrina nei locali, ugualmente era riuscita a guadagnarsi la santità e aveva ottenuto il favore dei cieli e non aveva tradito Cristo e coi capelli gli aveva asciugato il sangue, e quel poverino se ne stava appeso alla croce perché aveva annunciato il progresso sociale e che tutte le persone sono uguali tra loro, e sua mamma era crollata in lacrime e Maria Maddalena l’aveva consolata, e io mi chiedo, dove sono tutte le belle sventolone del tempo andato? sono morte e di loro nulla è rimasto, però la cara Mariuccia Maddalena continuerà per sempre a intenerire i cuoricini poetici, e questo era stato anche il destino di quel gran bel pezzo d’uomo che aveva studiato da falegname, lui sapeva segare travi e assi, e di punto in bianco aveva abbandonato ogni cosa e era andato a insegnare alla gente che l’amore effettivo per il prossimo non vuol dire far capriole con una signorina su un canapè, ma invece dare subito una mano a chi in quel momento ne ha bisogno”
 
 

 

La zia Irene e l'anarchico Tresca - Enrico Deaglio

Il narratore ci informa d’aver ricevuto una “memoria” dalle mani del dottor Marcello Eucaliptus perché sia resa pubblica. Ha steso detta “memoria” in forma cronologica e razionale. Dichiara d’aver controllato accuratamente gli eventi storici, soprattutto il ruolo di Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna, criminalità organizzata italo-americana e “altre bande di killer ideologici nella nascita della Repubblica italiana (e del suo sistema bancario)”. Afferma d’aver controllato l’esattezza delle percezioni di Eucaliptus, ma di aver difficoltà a esprimere un giudizio finale sulla spiegazione in merito alle vicende recenti. Su altri fatti confida di non aver trovato riscontro nella “realtà ufficiale”.

“Difficile, dunque, stabilire il confine tra realtà, sogno, allucinazione, premonizione, verosimiglianza”.

Siamo nel secondo decennio del ventunesimo secolo, in una Roma distopica, “svaccata, commissariata, puzzolente, senza governo, sottoposta ai capricci dei militari”. A Ostia la lista “Mafia Capitale” ha vinto le elezioni e governa. Oltre cent’anni prima, il piccolo Salvatore, che diventerà famoso come Lucky Luciano, apprendeva una grande lezione nelle strade di New York: che l’immondizia è cosa importantissima,“Chi la controlla è a un passo dal controllare una città”. I tempi cambiano, i costumi non sempre.
Al Biondo Tevere, “quello di Pier Paolo Pasolini”, un gruppo di ex esponenti dello spionaggio italiano consegna a Marcello Eucaliptus una valigia contenente documenti top secret. È il lascito della zia Irene, comunista “vidaliana” e ex funzionario dei servizi segreti. Marcello, con l’aiuto di Rita, è invitato a sbrogliare una matassa incredibilmente intricata su verità taciute, accordi non scritti, patti celati. E un omicidio. Quello del giornalista anarchico Carlo Tresca, fondatore del settimanale “Il martello”. Tresca si batté fortemente per la liberazione di Sacco e Vanzetti, difese gli ultimi, gli sfruttati, attaccò mafia e politica disonesta. Scomodo e temuto fu assassinato a New York l’11 gennaio 1943. Ci sono collegamenti fra gli accadimenti di allora e quelli attuali? Cosa c’è dietro l’omicidio di Tresca?
Presente e passato s’intrecciano in un viaggio spazio-temporale. Scorrono vicende e nomi: Carlo Tresca, Vittorio Vidali, Rodolfo Valentino, Tina Modotti, Frida Khalo, Diego Rivera, Generoso Pope, Frank Bonacci, Frank Garofalo, Benito Mussolini, fino a Michele Sindona e Giulio Andreotti. Italia e America, politica e malavita, mafia italo-americana e fascismo. 

È romanzo, film, indagine, è ricerca storica, politica, culturale. È invito all'approfondimento su persone e fatti che appartengono a un tempo non troppo lontano e però dimenticati.

P.S. Mi spiace solo che fra i tanti nomi non compaia quello di Ezio Taddei, amico fraterno di Carlo Tresca. Taddei riparò in America per sfuggire alle grinfie del fascismo. Divenne collaboratore de “Il martello” diretto da Tresca. Quando questi fu ucciso, Taddei iniziò una sua indagine personale. Si rivolse al giudice chiedendo l’incriminazione di Garofalo e Generoso Pope per il delitto di Tresca. Si ritrovò improvvisamente solo. Fu “premiato” col ticket di rimpatrio come “indesiderato”.

Villa in Brianza - Carlo Emilio Gadda, Giorgio Pinotti

Quella villa brianzola, nido dei rancori gaddiani, eccola qui: casa ridente “anzi occhieggiante”, senza bagno ma orientata secondo i punti cardinali, con la sua enorme cucina, il portico e la terrazza. E un caminetto, che non s’accende mai.
E qui, ecco i conuigi Pelegatta. 
Lui, Francesco Pelegatta, uomo sommamente morale, che ha viaggiato tanto senz’imparar alcunché; “negoziant de seda”crede “in Dio, negli Apostoli tutti e nella Santa Chiesa Madre di tutti gli uomini, ma è “senza il becco d’un quattrino”, quando solitamente “i ruspi e la Fede, sono notoriamente concili abilissime”. Il Francesco Pelegatta, con la camicia inamidata e quel tal contegno, al paesetto lo chiamano “el scior Pelegatta”
Lei, madre del piccolo Carlo Emiliuccio e moglie di secondo letto del Pelegatta, è la Marchesana Adelaide, “piena di virtù e di coraggio e di studî”, col caro fiasco nel caro armadio che cigola spesso durante la giornata. Potete immaginare voi perché.
I tre pargoletti dei Pelegatta giocano sotto il portico al suon del cigolante armadio (ché la Marchesana ha il suo gran da fare). E quando la donna di servizio, quella Marietta che “fa la piscia in piedi” funziona da dama di compagnia, lo stridio fa il bis. In quel di Longone, fra aria salubre e “gutturazioni pleistoceniche” di meccanici, idraulici e pompieri.

Questo brevissimo racconto è un atto di vendetta, forse un tentativo di riscatto dal risentimento verso i genitori e la casa che gli rese tanta pena. Nel 1910 fu messa un’ipoteca di 10.500 lire sullo stabile di Longone. Fu cancellata nel 1924 e costò grandi sacrifici a Gadda. In una lettera datata 15 febbraio ’27, scriveva alla sorella: “è come la pietra di una tomba posta sulla nostra vita, sui nostri sacrosanti interessi e diritti ... Non parlarmi quindi mai né di Longone né del sozzo contadiname a cui manteniamo una casa, mentre io devo lavorare come un cane e vivere al 4° piano in una camera fredda”
Si libererà della “fottuta casa di campagna”, del “feudo barcollante di Longone”, del “verme solitario Longone, con Resegone sullo sfondo e odor di Lucia Mondella nelle vicinanze” solo nel 1937, dopo la morte della madre.

Mastica e sputa - Pino Roveredo

Gocce di vita che si fanno immagine, ancor prima che parola. Una pennellata, un graffio, un tratto d'inchiostro. E la potenza di chi la scrittura ce l'ha dentro, come magma incontenibile.
Scrittura come vita. Scrittura che salva. 
Talvolta basta poco per non crollare, come essere presi in braccio, anche solo “per un minuto”, così, “ogni tanto”.

Sette zie - Marcello Marchesi

Marcello Marchesi trascorse gli anni dell’infanzia a Roma, nella casa dello zio materno, Guido, e di una frotta di zie, cognate di Guido. Motivo dell’esilio del piccolo Marcello, ultimo di sei fratelli, la colpa d’essere figlio illegittimo nato da una relazione della madre con un noto avvocato milanese.

Ed ecco Sette zie.

 

Amedeo narrante, Amedeo narrato. Gabriella del tempo narrato, Gabriella del tempo narrante.  Le storie s’intrecciano in giocosa alternanza con altri fatti, e altri personaggi là, nei luoghi della sua prima giovinezza, dov’è tornato per ricomporre la sua storia, e dove capita anche l’Amedeo scrittore di testi brillanti ch’è, come l’altro, un po’ smemorato.

Si ride del paradosso, ma si percepisce un sentire celato, fra le pieghe del dubbio e della stravaganza.

Amedeo e le zie. Tutte queste zie, che lo vedono sempre bambino anche quando bambino non è più, tutte innamorate di zio Guido, milanese, dentista creativo, marito di zia Ida. Zio Guido, che sposandone una, si sposa anche le altre sei.

Le sette zie, o forse sei, ché una non si sa se esiste, e se esiste non si sa dov’è. Sono sei o sette? Sette come i colli e i re di Roma, come gli angeli dell’apocalisse, o sei come i figli di Enrica Volpi, madre di Marcello?

O di più, come disse il vecchio conoscente, certo che fossero nove?

Amedeo e i ricordi. Non ricordi, mezzi ricordi, ricordi. Affiorano, sotto le mani sapienti e pazienti di Gabriella. Affiorano i ricordi, che Amedeo non ha mai amato, schegge di uno specchio frantumato che sarebbe meglio non tentare di riunire per vederci qualcosa che non c’è più, ma gettare prima che facciano male.

Non manca il fantasma. E nemmeno le sorprese.

 

In questo gioco di specchi e d’intrecci si trascorre qualche ora  né qui né là” ma soltanto “tra qui e là”. Condizione ideale”, come il tempo del viaggio di Amedeo sul treno Milano-Roma o Roma-Milano.

Rimini - Pier Vittorio Tondelli

“Voglio che Rimini sia come Hollywood, come Nashville cioè un luogo del mio immaginario dove i sogni si buttano a mare, la gente si uccide con le pasticche, ama, trionfa o crepa. Voglio un romanzo spietato sul successo, sulla vigliaccheria, sui compromessi per emergere. Voglio una palude bollente di anime che fanno la vacanza solo per schiattare e si stravolgono al sole, e in questa palude i miei eroi che vogliono emergere, vogliono essere qualcuno, vogliono il successo, la ricchezza, la notorietà, la fama, la gloria, il potere, il sesso. E Rimini è questa Italia del “sei dentro o sei fuori”. La massa si cuoce e rosola, gli eroi sparano a Dio le loro cartucce”.

Nella primavera del 1981 a Pier Vittorio viene proposto di passare due mesi sulla riviera adriatica per lavorare a un inserto speciale. Non parte. Manda invece Bruno Bauer, giornalista protagonista di Rimini, nell’abbagliante Hollywood romagnola, dove si va perché ci sono altri centomila, dove musica e sesso e droga si levano in coro, dove la notte è variopinta e risplende di strass e paillettes. 
Bauer e i suoi collaboratori percorreranno lo sfavillante lunapark italiano per cogliere e raccontare vite che scorrono e s’arrestano, bagliori e ombre di esistenze note e sconosciute. È un succedersi di personaggi, credibili perché rubati alla realtà, fantastici perché rinnovati dalla genialità della scrittura di Tondelli. Ognuno è mosaico umano, con ambizioni alte e sconfitte certe. Girano su una giostra che non prevede vincitori. Le braccia si tendono, le mani si chiudono. Il trofeo è irraggiungibile. Ma attorno, tutto è colore, tutto rifulge. 
La bocca stupita non avverte retrogusto amaro. C’è tempo, c’è tempo. Non va perduto.
Poi le luci si spengono. E rimane il vuoto.

Ciao Pier, a ri-vederci con le parole.


P.S. È recente la notizia che, grazie alla donazione della famiglia Tondelli e al consenso del curatore dell’opera tondelliana Fulvio Panzeri, la biblioteca privata dello scrittore diventa patrimonio del comune di Correggio. Si tratta di 2494 volumi che troveranno collocazione a Palazzo dei Principi presso il Centro di Documentazione Pier Vittorio Tondelli. La collezione, comprese le annotazioni e sottolineature autografe di Tondelli, sarà consultabile nei primi mesi del prossimo anno.

Il libro dell'estate - Tove Jansson, Carmen Giorgetti Cima
“… una pianta la si sposta dove può stare meglio, per una settimana ce la fa a sopravvivere sulla veranda. Se si sta via più a lungo, la si affida a qualcuno che la bagni, e può essere un po’ complicato.
Perfino le piante diventano una responsabilità, come tutto quello di cui si ha cura e che non è in grado di decidere da sé.”


Una vita germoglia, un’altra appassisce. Nel mezzo tutte le tempeste e i bisogni e le assenze tessuti in un’organza di mestizia, ricamata con vaporosa levità e rarefatta ironia.
Non c’è trama nella pagina quotidiana dell’esistenza, ma va a comporre il romanzo della vita il cui disegno è noto: nascere, vivere, morire. Questo sa la vita sfiorita. Questo va scoprendo la novella vita.

Delicato come un acquerello, con qualche guizzo di china fra i colori, Il libro dell’estate è una favola gentile. Contenuta e garbata, sfiora senza toccare, scalda senza accendere. Poeticamente algida. 
Algidamente poetica.
“Aha”.
E allora voglio tradurre l’insopportabile petulanza di Sofia come richiesta, prepotente e gridata, di quel mancato slancio istintivo e umano capace di attenuare, per quanto possibile, il dolore della perdita e il senso di smarrimento e rabbia. 
Un modo per chiedere qualcosa di più. Alla nonna. E alla penna di Tove. 
Fuoco e sale anziché algida poesia.
“Aha”, direbbe Sofia.
“Aha”, ripeterebbe la nonna.
“Aha”, aggiungo io. Perché? C’è una bambina di sei anni alle prese con l'elaborazione del lutto, e mai un abbraccio.



P.S. Ci sarebbe qualcosa da dire anche sulla traduzione. “Aha”.

 

Sei passeggiate nei boschi narrativi - Umberto Eco

“Un bosco è, per usare una metafora di Borges […] un giardino dai sentieri che si biforcano. Anche quando in un bosco non ci sono sentieri tracciati, ciascuno può tracciare il proprio percorso decidendo di procedere a destra o a sinistra di un certo albero e così via, facendo una scelta a ogni albero che si incontra. In un testo narrativo il lettore è costretto a ogni momento a compiere una scelta. Anzi, quest’obbligo della scelta si manifesta persino a livello di qualsiasi enunciato, almeno a ogni occorrenza di un verbo transitivo.

Mentre il parlante si accinge a terminare la frase noi, sia pure inconsciamente, facciamo una scommessa, anticipiamo la sua scelta, o ci chiediamo angosciati quale scelta farà.”

 

 

Incamminarsi nel bosco e uscirne con rinnovata consapevolezza.

Essendo comprovato il fabulare del lupo, incontrandolo, non sarà certo bizzarro fermarsi per scambiare quattro chiacchiere. Magari davanti a un buon caffè. E un pasticcino.

Chissà se il lupo è lettore modello, empirico, ideale, implicito, virtuale o metalettore.

Fratelli D'Italia - Alberto Arbasino

Fratelli d’Italia deve ancora affacciarsi nelle librerie (uscirà a maggio ’63, pubblicato da Feltrinelli), che ha già sollevato qualche (qualche!) malumore. Colpa forse di un paio di copie, sfuggite chissà come, lette ad alta voce qua e là, accompagnate da cori di “Scaaandalo!” 
I frequentatori di certi ambienti mondani si sentono chiamati in causa, e d’un tratto gli amici non sono più amici, i saluti vengono a mancare, e qualcuno (un altro Alberto), più arrabbiato di altri, cerca un modo per vendicarsi. Non lo denunciano, ma solo perché il libro non è ancora uscito e mancherebbe il corpo del reato. 
Insomma, certa società, che per la prima volta si vede nuda allo specchio, non gradisce, si sorprende, s’indigna. 
Anche Bassani, direttore editoriale della casa editrice Feltrinelli, osteggia l’opera di Arbasino; non ne condivide la mescolanza di generi, lo stile e il virtuosismo.
L’editore taglia corto: “Non desidero entrare nelle polemiche sul romanzo. Quello di Alberto Arbasino è a mio avviso anzitutto un libro, che alcuni leggeranno come un romanzo, altri come un saggio, altri forse ancora come un pamphlet o un repertorio giornalistico”.
Il libro esce dopo che l’avvocato cui è stato sottoposto il testo, non riscontrando estremi per eventuali denunce, dà il via.
Così Fratelli d’Italia arriva sugli scaffali. 
Alla prima pubblicazione per Feltrinelli del 1963, ne sono seguite altre due: quella per Einaudi nel 1976 e la terza per Adelphi nel 1993, ognuna rivisitata e ampliata dall’autore, modifiche che hanno fatto lievitare le pagine da 532 a 663, fino all’ultima versione a 1371 pagine. E sono 1371 pagine di puro godimento. 

Fra una metafora fuori moda e una parabola che fa tendenza c’è lo svelarsi di quella certa società che si presenta al mondo in tutta la sua inconsistenza, e che però non offre carne in scatola agli invitati né veste abiti dozzinali da department store. Nondimeno, when it comes to books, nelle loro “magioni eccelse, su quei tavolini così fini, sotto i Canaletto e i Bellotto, vedi volumi analoghi a pacchetti di patatine, merendine per bambini, detersivi popolari”
C’è il Paese intero, perennemente inadeguato e in ritardo, pieno di contraddizioni e pochezze. Ci sono letteratura e letterati, scrittura e scrittori, usi e costumi di quel magico momento del boom economico e culturale. E ci son le cose che certa morale non vuol che siano, ma che essendo si esercitano; l’importante è tacerle. Almeno le proprie. 

Fratelli d’Italia è un grandioso viaggio letterario-culturale sfrenato e incalzante. E… no ve l’oo ditt? Geniale. Ecco. L’ho detto. 
Su e giù a gran velocità per questa Hollywood nostrana. 
Non distogliete lo sguardo, ché il paesaggio scorre rapido e magnifico. Non distraetevi. Preparate taccuino e penna: al termine vi troverete con un elenco chilometrico di nuovi possibili itinerari letterari.
Di questo viaggio rimarrà la voglia di ripercorrere, di tanto in tanto, un tragitto a caso e andare in visibilio, ancora. 
E allora, Let’s go! Che meraviglia. Che piacere. Che goduria!

Caro Arba (posso chiamarti così?), per fortuna hai scritto Fratelli d’Italia allora. Ché oggi è rimasta da raccontare un’italietta dalla mondanità smorta, da schiscèta di minestrina sciapa. What a luck, what a luck! ch'era il 1963.
Levo un calice di italian i ([vino] “spaventosa erosione della matrice “vinum”, operata dall’abominevole dialetto bergamasco”), anche se sono astemia. 
Let’s drink, my dear Arba’! Leggerti è sempre una festa. Lo dico inscì: un gran piaser! E grazie (grazie!).


“Nei nostri vecchi tinelli... Da una parte, romanzetti piccolo-borghesi d’occasione, evasione, rievocazione, commozione, signora mia. E dall’altra, fuga da ogni realtà contemporanea nell’esercizio di stile al piccolissimo punto. Appena si vede crescere l’ombra del dittatore, guardare la realtà senza affetto può diventare pericoloso. E i più svelti fanno in fretta a capire: l’America l’è amara finché vige il Fascio, la diventa buonissima solo quand’è arrivato il generale Clark e si sono perse anche le mutande grazie al Duce. Poi però Togliatti fa paura, e allora si ricomincia: l’è amara, non l’è amara, e se non la sarà amara, chissà mai cosa sarà”.

Nella perfida terra di Dio - Omar Di Monopoli

Linguaggio ibrido, potente, ruvido. Mescolanza di dialettismi, lemmi arcaici e neologismi che rendono alta la scrittura.

 

“Prima” e “dopo”. Così è scandita la vita a Rocca Bardata, chimerico paese del Salento.

“Prima” e “dopo” si distinguono dai segni del tempo lasciati sui protagonisti, dalle ferite fresche o cicatrizzate ma mai guarite.

“Prima” e “dopo” confinati in un universo limaccioso, dove i sogni muoiono appena alzano il capo e i fiori appassiscono ancor prima di sbocciare.

Rocca Bardata, dove “prima” e “dopo” hanno concepito un seme malato e corrotto, dove “prima” era ieri, “dopo” è oggi, e dove domani è troppo lontano anche solo a pensarlo, è buona solo per la mala erba.

La genesi di tutto è racchiusa fra le zolle di una terra mefitica che nulla concede, che non offre salvezza, che costringe a ingoiare sangue e fango.

È la perfida terra di Dio, dove la redenzione è impensabile e la risurrezione impossibile.

Nella perfida terra di Dio, nonostante tutto, si leva un fiato di speranza. Refolo di vento che sorride impertinente e alimenta il fuoco, medicamento catartico per la terra e per gli uomini. Ha la voce di Michele, il più piccolo dei reietti.

 

“… se iddu non teneva a noi col cazzo che tornava qua a pigliarsi due pallottole

 

 

 

 

P.S. Però, la sonata non prevede ouverture.

Sofistica, lo so.

Norme per la redazione di un testo radiofonico - Carlo Emilio Gadda, M. Bricchi

È il 1950, un brutto momento per Gadda che si vede costretto ad accettare l’incarico alla RAI, per far fronte alle difficoltà economiche che lo tormentano.  

Scrive, in una lettera a Contini:

«Rimpiango oramai gli anni di Firenze (salvo le bombe e le S.S.) con la nostalgia di chi ha perso una vita che più non sarà. Qui sono un burocrate schiacciato e bistrattato: e a casa, dopo una giornata di lavoro, trovo una vecchia megera che non posso permettermi il lusso di strozzare perché Roma è piena di carabinieri e tribunali».

Nel frattempo Gadda continua a scrivere. Nel ’55, lascerà la RAI per dedicarsi totalmente (grazie all’anticipo di Einaudi per I sogni e la folgore e ai pagamenti mensili di Garzanti per accelerare il compimento del Pasticciaccio) alla sua attività di scrittore.

 

Durante il suo impiego alla RAI gli viene chiesto di stilare un vademecum per gli autori radiofonici, nasce così Norme per la redazione di un testo radiofonico, una breve guida, data alle stampe nel ’53.

 

La sopportabilità massima del parlato-unito, in Italia, è di quindici minuti.”, scrive Gadda. Quindici minuti, e l’ascoltatore italiano, senza presenza fisica, gesti e atteggiamento di chi parla, si tedia.

Il pubblico radiofonico è un pubblico virtuale, trattandosi di <i>“«persone singole», di mònadi ovvero unità, separate le une dalle altre. Ogni ascoltatore è solo: nella più soave delle ipotesi è in compagnia di «pochi intimi».

 

E come ci si deve rivolgere a questa moltitudine di mònadi? Il Carlo Emilio lo spiega chiaramente:

 

L’eguale deve parlare all’eguale, il libero cittadino al libero cittadino, il cervello opinante al cervello opinante. Il radiocollaboratore non deve presentarsi al radioascoltatore in qualità di maestro, di pedagogo e tanto meno di giudice o di profeta, ma in qualità di informatore, di gradevole interlocutore, di amico.”

 

Lo stile da adottare? Innanzitutto evitare che nel radioascoltatore si manifesti il cosiddetto «complesso di inferiorità culturale».

 

A seguire un elenco di suggerimenti. Cito:

 

“Evitare le parole desuete, i modi nuovi o sconosciuti, e in genere un lessico e una semantica arbitraria, tutti quei vocaboli o quelle forme del dire che non risultino prontamente e sicuramente afferrabili. Figurano tra essi:

a  i modi e i vocaboli antiquati;

b    i modi e i vocaboli di esclusivo uso regionale, provinciale, municipale;

c    i modi e i vocaboli, talora arbitrariamente introdotti nella pagina, della supercultura (p. e. della supercritica), del preziosismo e dello snobismo;

d    i modi e i vocaboli delle diverse tecniche; della specializzazione;

e    i modi e i vocaboli astratti.”

 

E ancora:

Evitare le forme poco usate e però «meravigliose» della flessione, anche se provengono da radicali (verbali) di comune impiego. Non tutti i verbi sono utilmente coniugabili in tutti i tempi, modi e persone. È questa una superstizione grammaticale da cui dobbiamo cercare di guarirci. Il verbo rappattumarsi genera uno sgradevole e male assaporato ti rappattumi (seconda singolare indicativo presente), il verbo agire genera, al primo udirlo, un incomprensibile agiamo (prima plurale indicativo presente), il verbo svellere uno svelsero (terza plurale indicativo remoto) alquanto indigesto, il verbo dirimere e il verbo redigere degli insopportabili perfetti. Tali mostri sono figli legittimi della coniugazione, ma la legittimità dei natali non li riscatta dalla mostruosità congenita.”

 

Sulla doppia negazione:

 

Evitare le litòti a catena, le negazioni delle negazioni. La litòte semplice – negare il contrario di quel che si intende affermare – è gentile e civilissima figura. Molto redditizia al microfono e in ogni forma di discettazione ragionata o di esposto critico o storico, attenua la troppo facile sicurezza o l’asprezza eccessiva di chi afferma: crea un distacco ironico dal tema, o dal giudizio preferito. «Questa lirica non è malvagia». «La prosa del Barbetti non è delle più consolanti».

Ferale risulta invece all’ascolto la catena di litòti.

Alla seconda negazione la mente per quanto salda e agguerrita dell’ascoltatore si smarrisce nella giungla dei «non». Ogni «non» della tormentosa trenodìa precipita dal cielo del nulla a smentire il precedente, per essere a sua volta smentito dal seguente. Una doppia litòte è, le più volte, un problema di secondo grado. Difficile risolvere mentalmente un problema di secondo grado, impossibile risolvere un problema di terzo grado. Sarà bene vincere pertanto la seguente catena di tentazioni: «Non v’ha chi non creda che non riuscirebbe proposta inaccettabile a ogni persona che non fosse priva di discernimento, il non ammettere che si debba ricusare di respingere una sistemazione che non torna certo a disdoro della Magnifica Comunità di Ampezzo». Più radiofonico: «Tutte le persone di buon senso vorranno ammettere che la sistemazione onorevole proposta dalla Magnifica Comunità di Ampezzo è senz’altro accettabile».”

 

 

Leggevo e pensavo ai tuoi libri. Mi son trovata con un sorriso grande così.

Ah, caro Carlo Emilio! Che godimento! Che piaser!

La musica, come la vita, parapiglia d’emozioni.

Preludio a un bacio - Tony Laudadio

Il preludio era anticamente un’esecuzione in forma libera, serviva a trovare l’intonazione e introdurre l’opera musicale.

Forme libere negli standard jazz che Emanuele intona.

Forme libere, proemi che introducono il tema della rinascita.

 

Nel lemma “preludio” è incastonato “ludere”, “giocare”.

Giocare/suonare in inglese è “to play”, in francese “jouer”, in tedesco “spielen”.

Preludio è il gioco della vita che si spiega a innumerevoli premesse, che scorre placida e turbolenta, gaia e ansante; sempre in forme libere, sorprendenti.   

 

Emanuele gioca con le note, Tony con le parole.

Il romanzo è un succedersi di preludi, ognuno anticipa sogni, tentativi di legami, desideri di risoluzioni e rivoluzioni, di riscatti. In comune un’attesa d’amore. E di felicità.

L’aria della strada raccoglie, s’empie di note, e di parole; quelle di Emanuele e quelle di chi percorre un tratto di pentagramma insieme. S’empie anche di dolore, fisico e morale. Solo all’ultima nota sapremo se il preludio è rimasto ciò che originariamente era o se s’è fatto composizione distinta. Ma lo sapremo veramente?

 

La parola è la sorella stronza della musica

Affermazione di notevole impatto. Colpisce. Ha colpito anche me.

Ci ho pensato un po’.

La parola è significato e musica, talvolta è musica ancor prima che significato. È suono, è alito emozionale ed emozionante. Questo un attore lo sa. Allora mi dico che l’affermazione è di Emanuele, non del suo creatore. E mi par di trovare la giusta dimensione.

Ci rifletterò ancora.

Certo è che la musica è quel filo impalpabile che unisce l’umano al divino, e arriva dove la parola non può.

 

Preludio a un bacio è un romanzo gentile. Umano, come la voce del sax tenore. Sfiora, tocca, e ti dice che, in fondo, nessuno di noi passa invano.

Cede un po’ qua e là, ma scorre e lascia spunti per pensare.

 

 

 

P.S. Si sa, io ci ho il sobbalzo facile.

 

Recupero uno straccio per pulirlo [il sax] e smonto anche l’ancia, che in genere lascio sempre attaccata per fare prima. Dovrei comprarne una nuova, questa è consumata e leggermente incrinata, sono anni che la uso.

 

Un’ancia spesso ha vita breve, brevissima, talvolta nemmeno ce l’ha, una vita. Lasciarla attaccata all’imboccatura senza asciugarla significa ritrovarla con le “onde” in punta e sfibrarla prima. Anche imbattendosi in una di quelle ance miracolose, sogno di ogni strumentista (e che sogno rimane il più delle volte), si riuscirebbe a usarla per parecchio tempo, alternandola con altre ance. Anni, però, direi di no. E non può essere una sintetica (sarebbe comunque una durata enorme), l’incrinatura e quel “Inumidisco l’ancia” fa cadere l’ipotesi.

Insomma, "è un secolo che la uso" avrebbe reso l'idea di un tempo lungo senza quantificarlo; "sono anni che la uso" fa sobbalzare.

E ho sobbalzato. Ecco.

Pesante, lo so. Tenetemi così.

 

 

Prelude to a kiss

https://www.youtube.com/watch?v=j20urFTll-M