Letta la sinossi ho pensato: ecco, finalmente “l’orientale” che fa per me.
Non è andata così. Non sono riuscita a sprofondare nel libro. O meglio l'ho fatto a tratti per rincorrere funamboli, attori, ballerine, prostitute, vagabondi perché mi raccontassero le loro storie.
Ho ascoltato, a volte ammaliata, altre annoiata.
Ho guardato, talora incantata, in altri casi infastidita.
Un turbinio di luoghi, voci, suoni. E colori. Il rosso sopra tutti. Dal rosso fiammante che veste un sogno sensuale al rosso scuro che profuma di donna perduta. Nel mezzo, coriandoli di vita sparsi fra vicoli e quartieri di Asakusa.
Caro Kawabata, premio Nobel per la letteratura 1968, non volermene. Non so se m’è piaciuto questo viaggio. Ho provato varie volte il desiderio di interromperlo. Lo dico con onestà, perché è giusto così.
Sono io ad avere un problema con gli scrittori orientali in generale.
Un mio limite. Ci riproverò.